Nelle Calabrie la pesca è rimasta una straordinaria avventura. È una Calabria dalle due civiltà, la prima rivolta a Ponente e l’altra che ha sempre guardato a Levante, dove lo Jonio e il Tirreno sono da guardare con gli occhi del passato. Portatori di ricchezze e allo stesso tempo un limite, una barriera che si estende, sconfinata, fino ad un orizzonte di identità perdute e non ritrovate. Mari che sono mille cose insieme, vissuti dai pescatori che non temono il sole. Essi cavalcano le onde, con il rollio continuo dell’imbarcazione, che tirano a bordo la paranza e non si abbandonano a cuor leggero, alla perfidia delle onde.
La pesca, un amore arcaico
Nella lunga terra bruzia, la pesca è rimasta una straordinaria avventura, un amore arcaico, scarsamente dannosa, con l’uso di un gozzo da parte di uno, due, tre pescatori che non si allontanano dalle cale antistanti il proprio piccolo borgo dove vivono. Il pescatore «se alza gli occhi vede casa sua». Gli sono noti tutti i punti dove è possibile trovare cernie, orate, sogliole, triglie, cefali, naselli. Sa quando al largo si pescano le sardine e le acciughe. Con gesti semplici, scioglie gli ormeggi del suo gozzo costruito a Pizzo, a Scilla, a Cetraro, a Cariati, carico delle reti di posta e straordinariamente simile ai legni greci e romani. Le vele si gonfiano del vento propizio, che «porta ancora una volta, i profumi della pineta lontana e del talamo deserto».
I pescatori
Nelle case, intanto, «si prepara la biancheria con mazzetti di spiganardo. Si lucidano i mobili con l’olio di oliva, e anche le donne si rinnovano, si ungono i capelli neri ondati». Religiosi fino alla superstizione, i pescatori sfruttano il mare, come i contadini i loro campi. Nelle acque incontaminate e trasparenti dei fondali calabresi, pescano come si è sempre pescato, con palangari, tramagli, sciabiche e nasse. E con la lampara che accende il mare di notte, «ieri una torcia resinosa, oggi una lampada ad acetilene o a batteria».
Le barche affidate ai venti di Eolo
Sottovoce, sulla loro barca, con una navigazione cauta ed a volte incerta, si affidano ai venti delicati di Eolo. Il nume che dalla sua dimora di Lipari sospinge sulle coste bruzie, un antico canto di storie e di cimenti, dell’epica fatica su un mare che incute timore. «Con il braccio fisso sul remo, scampano all’impetuosità delle onde e ritornano al lido, per stringere la donna amata» che immobile, con lo sguardo rivolto al blu dell’orizzonte, aspetta con trepidazione, sul finire del giorno, il ritorno del suo uomo. Del marito, del padre, del figlio, ascoltando con chiassoso interesse racconti fantastici «intrisi di salsedine e di sole». Giunti finalmente a riva, i marinari si liberano delle paure nascoste, si segnano la fronte, s’inginocchiano per recitare le loro preghiere e ringraziare San Francesco di Paola.
La pesca del pesce spada tra Scilla e Cariddi
Su questi mari, tra i vorticosi gorghi di Scilla e Cariddi, si pesca dall’antichità, una volta l’anno, il pesce spada, quando abbandona i fondali per la riproduzione. Al largo della costa compresa tra Cannitello, Scilla, Bagnara e Palmi, i pescatori, da marzo a settembre, usavano le spadare. Si tratta delle caratteristiche imbarcazioni per la pesca del pesce spada, munite di una passerella prolungata in equilibrio sul mare dove un uomo sta di vedetta pronto a lanciare l’arpione. E tra maggio e giugno nel Golfo di Sant’Eufemia e al largo del Poro, nel tratto di mare compreso tra Pizzo e Tropea, si cattura il tonno.